la raccolta  

 

 

  N. 006

 

E’ Natale….Quanti Natale ho festeggiato? Meglio non pensarci. Gli anni passano inesorabilmente ed ormai ho raggiunto quella che una volta veniva definita “età veneranda”.

   Ricordo che a  casa di mio nonno veniva allestito  un  presepe che occupava per metà il soggiorno ed arrivava, in altezza, al soffitto; zia Celestina iniziava la costruzione a fine novembre quando cioè Filomena portava dallo scantinato vari scatoloni, vecchi“ trispiti e  tavuli  d’u  lettu” e tanti giornali accumulati durante l’anno. Le scatole, svuotate dal loro contenuto, venivano  sistemati sul  fondo  e sulle due pareti laterali  per essere poi ricoperte dai giornali per simulare montagne. Trispiti e tavoli formavano la base. Occorreva molto tempo  per preparare  sia la  colla di  pesce, che doveva essere sempre calda per mantenere il suo stato semiliquido, sia  quella fatta  di  farina sciolta  in acqua; in questa   venivano  immersi completamente  i  giornali che  modellati  a montagne,  nell’asciugarsi,  assumevano una certa consistenza. Alla fine tutto veniva dipinto di colore marrone e verde e le cime più alte, spruzzate di farina per simulare la neve; poi si passava alla posa dei  “pastori”: i  più grandi vicino, i più piccoli lontano sulle montagne.  Pareri quasi sempre discordi tra zia  e nonno  per dove sistemare la grotta o gli specchietti per la” lontananza” o da dove dovevano arrivare i re magi!

   Il  presepe doveva essere pronto per l’8  dicembre,  festa “ra  Mmaculata”,  perché in  quel giorno scendevano in città i  truncoti ed  i cardoli con le ciaramelle e con un triangolo di ferro che, appeso ad  uno  spago, veniva   ritmicamente   percorso con  un  bastoncino anch’esso  di  metallo perché emettesse un suono squillante. Nonno  li faceva entrare in casa per suonare davanti al presepe con grande gioia ed incanto da parte di mia sorella e mia.

    Natale  era anche” crispeddhi,turruni e pitrali” ( zeppole, torrone e dolcetti ripieni di fichi secchi e mandorle). L’ultimo giorno dell’anno  era  usanza che  i  ragazzi andassero a bussare alla porta dei vicini di casa per augurare un felice futuro e per ricevere in cambio una manciata di questi dolci;  raramente ciò non avveniva  ma quando accadeva, cioè “sa  cacciavanu  cu n’aguri puru a bui”, noi ragazzi si andava via cantando: “ bon capurannu e bon capu i misi, arretu a porta ‘na petra vi misi”…. Significando che uscendo potevano incespicare e cadere.   

 

N. 005

Ed è arrivato il mese durante il quale, al mio paesello, maturano i ficarazzi. Malgrado il nome, il fico d’India  è originario del Messico. Il frutto è succoso,di colore giallo o porporino con la buccia disseminata da  piccolissime spine;  ha moltissimi semi e proprio per questo motivo non è gradito da molte persone.

    Le sue foglie, isteddhi, a noi ragazzi  servivano come proiettili da lanciarci  nel rientro a casa a fine giornata scolastica. Posso assicurare che essere colpito non era affatto gradevole!

   Subito dopo l’occupazione alleata, mentre  la  guerra infuriava ancora intorno  a Cassino, i fichi d’India sono stati un business per noi ragazzi sempre alla ricerca di qualche soldino. 

   All’imbrunire si raccoglievano questi frutti  e  si stendevano a  terra per eliminare  alla meglio le spine  strofinandoli ca  rizzuta ( erba ruvida). All’alba  queste  ceste venivano  portate in città  ed  ificarazzi , sbucciati  al momento, venivano  venduti  ai passanti;  qualcuno, per calmare  la  fame, esagerava nel mangiarli così che all’indomani doveva ricorrere alla ‘nza Genia o alla ‘nza Nina che con il dito indice sostituivano l’enteroclisma quasi sempre non disponibile.

   Le attuali mie fugaci e rare visite al paese natio avvengono prevalentemente in settembre quando ormai i fichidindia non si  trovano più in pianura. Il mio amico Pippo, per offrirmene qualcuno, mi porta con la sua sgangherata auto, fino ai contrafforti aspromontani ove maturano più in ritardo.

   Frequentata solamente nei giorni di festa del Patrono, “ o Liandru  sorge  una solitaria chiesetta nel cui antistante slargo  prospera  un vecchio  ficodindia . Pippo,  da  persona educata,  prima  di raccogliere qualche frutto, chiede a voce alta: “ndi putimu mangiari”? .Poiché nessuno risponde né potrebbe non essendoci anima viva nei pressi,  Pippo,  per sentirsi  a  posto con  la  coscienza, terminando l’interrogativo col proverbiale “ chi tace acconsente”, comincia a sbucciarne qualcuno ricordandomi che più di tre non me ne farà mangiare anche perché sia Genia che Nina sono morte da tempo.

 

 

N. 004
Arrivati ad una certa età ( la terza? la quarta?), capita che si perda la memoria di fatti recenti mentre improvvisamente diventano nitidi fatti accaduti nella gioventù; i medici la chiamano "decadenza senile" che, in linguaggio terra-terra, significa "rimbambimentu".
Su questo non tutti sono d'accordo; comunque vale sempre il detto " le opinioni sono come le palle:ognuno ha le sue".
Spesso di una persona, più che della fisionomia, torna in mente un episodio, un modo di dire o di fare che rispecchiava una loro filosofia di vita.
'U Cavaleri, ottantenne a fine anni trenta, quasi cieco e abbastanza sordo, soleva sedersi davanti all'uscio per godere un po' di frescura anche se accanto doveva sopportare "chiddamalanova 'i me'mugghieri" con la quale erano continui litigi. Egli soleva ripetere " quando la donna prende il sopravvento diventa un diavolo" aggiungendo, come se volesse rispondere a se stesso, "matrimonio sbagliato"; e questo dopo che erano trascorsi più di quarant'anni di vita in comune!
Sulla confinante mulattiera, passavano contadini che si recavano al lavoro e che per rispetto, come si diceva allora, salutavano il cavaliere con un "birinica" (benedica, ci dia la sua benedizione) o un "santu jornu" ricevendone in cambio un "saluti a vui" immediatamente seguito da un "ccu era" (chi ha salutato)- poiché era quasi non vedente- rivolto alla moglie la quale più di una volta era a disagio perché non ne conosceva il cognome ma solo "a 'ngiuria" (soprannome) e quindi non poteva dirlo fin quando non si fosse allontanato l'interessato, per non offenderlo. Ma questo esitare nella risposta infastidiva il cavaliere che tra un rimbrotto e l'altro alla moglie, continuava a ripetere " annunca cu era"? (allora chi era?).
A proposito, i soprannomi a quel tempo servivano anche da….stradario! Infatti per dare un'indicazione, si diceva: prima della casa di…- dopo la casa di…- arrivato alla casa di…prendi il viottolo di destra o di sinistra.
Moltissime famiglie erano conosciute solo col soprannome .E " i 'ngiuri' erano tanti, alcuni anche non molto decenti: cacatu, piscialettu, cacafocu, oppure brazzuddu, spacca, orbu, sei irita, drittu, e così di seguito.
" U tisu " era Giovanni, così soprannominato per il suo portamento eretto, quasi piegato indietro, dovuto al fatto che portava appeso davanti un tamburo;
Giovanni è stato l'antesignano del Carosello, il re della pubblicità casereccia, in una parola: 'u bandiaturi. Girava per i vari rioni pubblicizzando la merce del committente del momento.
Un giorno , come al solito seguito da un codazzo di bambini, con la serietà che il mestiere gli imponeva, mentre gridava, tra due poderosi rulli di tamburo, -" scalaru i patati nti Cardili,curriti fimmini " ( svendita di patate nel negozio Cardile, affrettatevi donne), alzando gli occhi si accorse che una bambina da lui conosciuta ( Domenica chiamata Mica) , nello scendere i tre gradini davanti casa, era rovinata a terra. Senza perdere tempo, per attirare l'attenzione della madre, con solito rullo di tamburo gridò " Micacariu 'pa scala, Mica cariu 'pa scala". Il pubblico presente scoppiò a ridere perché Giovanni, con la cadenza che aveva posto alla sua voce, aveva dato adito ad altra interpretazione: " Mi - cacariu - 'pa - scala" !! ( Non oso tradurre).
Fu così che Giovanni 'u tisu' entrò nei ricordi.

N. 003
Ad un mio amico, il medico ha sentenziato “ Devi camminare. Vedrai che il tuo cuore ne trarrà beneficio. Prenditi un cane, cosi’ sarai costretto ad uscire di casa”. Vivendo in un bilocale e non volendo fare soffrire di claustrofobia un cane, il mio amico, al posto del cane ha scelto me! “ Dopotutto anche le tue articolazioni si stanno arrugginendo; ci faremo buona compagnia”. Alle lunghe chiacchierate giornaliere, dopo un mese sono subentrati lunghi silenzi, bènefici anche questi perché danno l’opportunità di pensare ai fatti propri.  Non so se il medico col suo “cammina” intendeva dire di percorrere due- tre chilometri a passo sostenuto, so però che le nostre sono vere e proprie passeggiate ed anzi spesso “svetriniamocioè ci fermiamo a guardare gli oggetti esposti nelle vetrine dei negozi.  Nei giorni scorsi, in un negozio di articoli sportivi, in bella mostra vi erano completi per baseball comprese mazze di diverse marche. Mentre le ammiravo, mi è tornato in mente un giuoco che facevamo da ragazzi: ‘u ligneddu. Gli “attrezzi” erano un bastone di circa 60- 70 centimetri ricavato da un ramo di ulivo o di gelso ed un altro più corto ( 15- 20 centimetri)  cui si appuntivano le estremità. A terra si tracciava un cerchio dal diametro approssimativo di 2 metri dentro il quale si appostava con funzione di  battitore chi era risultato favorito al sorteggio. Egli, posto il legnetto corto a terra, doveva colpirlo con la mazza ad una estremità in modo da farlo alzare da terra e poi, con un ben assestato colpo di bastone  lanciarlo il più possibile lontano. Questo “ligneddu” doveva essere preso al volo cioè prima che toccasse terra, dal rilanciatore; in questo caso quest’ultimo spodestava il battitore e prendeva il suo posto; in caso contrario raccattava da terra il legnetto e lo rilanciava cercando di farlo giungere dentro il cerchio; se l’obbiettivo veniva mancato, il battitore aveva diritto a picchiare tre volte con la mazza un’estremità appuntita ‘duligneddu per farlo sollevare e poi , con una preciso colpo, allontanarlo il più possibile dal cerchio.  A questo punto, il battitore doveva stimare la distanza raggiunta dal legnetto utilizzando come unità di misura la mazza; se il rilanciatore riteneva che ci fosse  un errore di valutazione della distanza, intimava “falli!” cioè misura quante lunghezze di mazza era distante ‘u ligneddu  dal cerchio; se il numero di mazze corrispondeva a quanto detto dal battitore, questi aveva diritto ad un altro lancio; in caso contrario, doveva cedere il posto e non totalizzava alcun punto di quelli stabiliti prima di iniziare il giuoco.Vinceva chi per primo totalizzava, nel ruolo di battitore, il punteggio stabilito
.     

 

N.002
Da quando ho concluso il ciclo lavorativo, ritorno due volte ogni anno al mio paesello che si affaccia sul magnifico scenario dello stretto di Messina. Dico mio paesello anche se in effetti sono nato in città ma è in quel centro rurale che ho vissuto fin dai primi miei anni di vita.

 Sono andato a rivedere la “mia” scuola elementare: non esiste più, mi dicono, da qualche anno, adesso sorge un centro sociale.

Percorro circa centro metri verso quella che era l’abitazione della “mia” maestra è un rudere, tutto crollato. Sento un nodo in gola.

Mi siedo supra ‘u bizzolu, chiudo gli occhi e mi lascio prendere dai ricordi.

Da un piccolo rione collinare, al mattino presto, aspettandoci uno con l’altro, ci avviamo a piedi verso la scuola. Qualcuno di noi aveva già raccolto erba fresca e pale di fico d’india per sfamare la capretta che, assieme all’asino, spesso era una delle poche ricchezze.

In grembiule nero, - “lo sporco sul nero si vede meno” dicevano le nostre mamme – un libro ed un quaderno sgualcito sotto il braccio oppure per i più fortunati, in una borsa di tela ricavata da un abito non più indossabile, via verso la scuola!

Quante “aste” ho fatto alla prima elementare! Prima sul quaderno a quadri grandi poi su quello a quadri piccoli Finalmente le vocali. “Mi raccomando, dentro i quadratini”. Suggerimento della maestra spesso caduto nel vuoto. E allora arrivava il momento dell’uso del ramoscello di ulivo che la maestra, con movimenti appositamente lenti, dopo l’appello, aveva privato dalle foglie lasciandone  solo un ciuffettino in cima. “Allunga  il braccio col palmo della mano in alto” imponeva l’insegnante  a chi quel giorno aveva fatto più sgorbi invece di “vocali rigorosamente dentro i quadratini”. Qualche volta la verga riusciva a raggiungere l’obbiettivo ma, il più delle volte, eravamo più veloci noi a ritrarre la mano ed essa sbatteva sul legno del banco.

Mi è rimasto un dubbio: eravamo noi svelti o la maestra volontariamente mancava il palmo?

Tutto questo oggi è inconcepibile. Eppure pensateci un po’: sono trascorsi “solo” decenni.

Forse fra altrettanti sarà anacronistico quello che avviene oggi nelle scuole.    

 

N. 001
Stavolta non devi dirmi di no.... Non puoi.... Passeremo una giornata diversa dalle solite. Vengo subito a prenderti, andremo con la mia macchina". Al telefono e' un mio amico, proprietario di un terreno nell'Oltrepo' Pavese, il quale conosce molto bene la mia indole di pantofolaio. Si parte. Voghera, Rivanazzano e su verso Montesegale, frazione Camolino. Attraverso un bell'arco di mattoni che una volta doveva fare da cornice ad un cancello, entriamo in un cortile che ha al centro un pozzo con l'intonaco alquanto sbrecciato; l'arco di ferro battuto, al posto della classica carrucola, ha appeso un secchio con dentro una pianta grassa. Tre lati del cortile  sono occupati da cascinali, il quarto si apre direttamente verso la campagna. A destra vi sono le stalle: due mucche, tre maiali e tante galline che razzolano anche nel cortile. L ' odore non e' di profumo ma... sa di campagna! La cascina di fronte e' abitata dalla coppia di contadini, alquanto avanti con l ' eta', che non nascondono un certo rispetto verso il mio amico e, di conseguenza, verso me. Attraversando la cucina, il mio sguardo e' attratto da una vecchia "cucina economica a legna" sulla quale troneggia un pentolone di rame. La contadina e' intenta ad affettare un salame che ci verra' servito con fette del classico "micone" vogherese, dopo un sostanzioso piatto di fettuccine al ragu'. A colazione terminata, il mio amico propone di assaggiare il vino novello; "Vediamo se e' pronto, dev'essere maturo!". Si entra in un locale unico con alla destra una grande botte di rovere e una serie di cubi di cemento. "Sono contenitori di vino; il rovere e' costoso e abbisogna di manutenzione " mi spiegano vedendo la mia perplessita'. A sinistra, una vasca per pigiare l ' uva e due torchi per la spremitura finale. Il ritrovarmi, dopo tanti anni, in un palmento, complici il buon vino nero servito a pranzo ed i diversi assaggi di novello, risveglia in me ricordi di un tempo ormai lontano. Tra fine agosto ed i primi di settembre, il rione del mio piccolo paese del profondo sud, si rianimava in modo particolare. In anticipo i contadini stabilivano la data della vendemmia cosicche' un folto gruppo di persone  potesse spostarsi da un vigneto all'altro. E se un giorno pioveva? Anche questo era stabilito: tutto veniva spostato di un giorno. Mentre le mani dei contadini si muovevano rapidamente e con maestria staccavano i grappoli d'uva dai tralci delle vite, si intonavano (o meglio, si stonavano) canzoni in voga o si intrecciavano discorsi che, il piu' delle volte, erano pettegolezzi. A mezzogiorno si "staccava" per il pranzo offerto dal proprietario del fondo; spesso esso era composto da "pani e pipi rrustuti" (peperoni arrostiti) e vino; le vendemmie  piu' affollate e tradizionalmente conosciute, erano quelle in cui si mangiava meglio e in abbondanza: "ruttami chi facioli" (pasta di vario formato che le botteghe vendevano a minor prezzo; e' da tener presente che allora  la pasta non era impacchettata ma contenuta in sacchi di iuta. Gli ultimi rimasugli dei vari formati, spesso spezzettati nel trasporto, venivano mescolati e venduti come "rotti") oppure "piscistoccu chi patati" (stoccafisso con le patate). A sera, i grappoli  "nte cofineddhi" (nelle ceste) venivano trasportati nel palmento e versati nella "gebbia" (vasca). Si pigia.... Ciack... ciack.... Gli acini si schiacciano sotto la spinta dei piedi nudi e l'odore del succo d'uva comincia a diffondersi. "Assaggia questo novello. E' di quella botte e mi sembra piu' buono". L a voce mi riporta alla realta'. Ahi, ahi i ricordi ..... Mio nonno diceva "quando si comincia con i ricordi si e' a un quarto dal Ciao!".

 

 

I ricordi di Franz



 

 

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